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Immagine del redattoreJonas Marti

L'alfabeto di Lugano


Una è addirittura rimasta per due millenni sotto gli ignari occhi di tutti. Era a Ponte Capriasca, in un vigneto vicino alla chiesa di San Rocco, utilizzata come appiglio a cui fissare il filo di ferro di un filare. Altre invece sono rimaste sepolte per secoli sotto le strade, negli scantinati, tra i rovi dei boschi. Basta uno scavo, una ristrutturazione, l’erosione di un terrazzamento per farle tornare alla luce. Pietre sepolcrali ed epigrafi funerarie che hanno taciuto per millenni e che ora sussurrano nomi dimenticati. Come Slania figlia di Verkos, che visse e morì duemilacinquecento anni fa nelle valli sopra Lugano, emersa accidentalmente nel 1813 sotto i grappoli d’uva di un vigneto di Davesco. Come Valauna figlio di Ranienos, ritrovato nel 1820 a Mesocco durante la costruzione della strada del passo del San Bernardino. O come Kuimitros, che fino al 1998 giaceva in un prato di Bioggio, accanto alla chiesa di San Maurizio.

La stele di Davesco al Museo Retico di Coira.

Decine e decine di iscrizioni puntellano la Svizzera italiana, e gran parte dell’area tra i laghi Maggiore, Ceresio e Lario. Un preziosissimo tesoro che conosciamo poco e male, ma che archeologi e linguisti di tutto il mondo ci invidiano. Le epigrafi sono infatti redatte nel più antico sistema di scrittura attestato in Svizzera. Alfabeto etrusco, o meglio un adattamento dell’alfabeto nord-etrusco, utilizzato a partire dal 600 a.C. dalla popolazione celtica che abitava la nostra regione, i Leponti. E che – piccolo motivo di orgoglio nostrano – prende il nome dall’area dove nell’Ottocento sono avvenuti i primi significativi ritrovamenti: l’alfabeto di Lugano.


A studiarne ogni solco, da oltre trenta anni, ci pensa Patrizia Solinas, professoressa associata all’Università Ca’ Foscari di Venezia, considerata la massima esperta mondiale nel campo. «Le testimonianze nell’alfabeto di Lugano hanno un valore inestimabile perché ci hanno permesso di rivoluzionare lo studio delle lingue celtiche. Ne sono la più antica attestazione nel mondo intero: prima i nostri studi si basavano sulle testimonianze provenienti dalle isole britanniche, che però risalgono al Medioevo. I ritrovamenti di iscrizioni nell’alfabeto di Lugano ci hanno invece permesso di arrivare a oltre mille anni prima, al VII secolo avanti Cristo, e di addentrarci in aspetti inediti». Tanto che negli ultimi anni gli studiosi che si erano sempre occupati del celtico insulare hanno cominciato a tuffarsi a pesce tra gli incavi delle iscrizioni lepontiche, un ambito di ricerca più stimolante perché più fecondo di nuove scoperte.


È stato il linguista ed etruscologo tedesco Carl Eugen Pauli, nel 1883, a battezzare l’alfabeto con il nome di Lugano. Pauli stava cercando di inquadrare gli alfabeti etruschi della pianura padana, ed era incappato nelle iscrizioni della Svizzera italiana. Prima di lui ad abbozzare una prima partizione era stato il famoso classicista Theodor Mommsen, che tra le otto varietà individuate negli alfabeti nord-etruschi, una l’aveva chiamata «alfabeto della Svizzera». Carl Pauli andò invece oltre e decise di omaggiare Lugano, epicentro delle prime significative scoperte. Alla città sul Ceresio si affezionò poi così tanto da cominciare, dieci anni più tardi, a insegnare greco e latino al Liceo Cantonale.


Ma dopo il primo scossone dato agli studi da Pauli, per quasi tutto il Novecento poco si muove. Fino alla svolta degli anni ’90 del secolo scorso, innescata da nuove scoperte, che stravolge ogni prospettiva. E costringe gli studiosi a buttare via quasi tutto quello che era stato scritto fino ad allora. Un esempio? «La datazione delle iscrizioni ci ha permesso di affermare che i Celti abitavano l’Italia settentrionale e la Svizzera italiana ben prima di quanto ci hanno tramandato gli scrittori classici», spiega Patrizia Solinas. Oppure ancora: «Oggi sappiamo che nell’area il processo di romanizzazione fu molto lento, perché ancora nel secondo secolo dopo Cristo troviamo steli scritte in alfabeto di Lugano. Per queste popolazioni avere una propria grafia era un fattore identitario di grande importanza. Erano popolazioni divise, e ogni gruppo viveva per i fatti suoi, con mille nomi e mille consuetudini. Ma con un solo alfabeto».

Ma il fatto che una popolazione celtica abbia cominciato a scrivere utilizzando un alfabeto etrusco è anche la dimostrazione di come la Svizzera italiana, prima dell’arrivo dei Romani, fosse un vero e proprio melting pot. Ne è convinta Eva Carlevaro, archeologa al Museo Nazionale Svizzero di Zurigo e caporedattrice della rivista di Archeologia Svizzera. «La nostra regione era il fulcro degli scambi tra il nord e il sud dell’Europa. Gli Etruschi utilizzavano i nostri passi per commerciare con le popolazioni celtiche del nord, e i Leponti facevano da tramite. Negli scavi archeologici abbiamo trovato vasi di bronzo di fattura mediterranea e collane di ambra provenienti dal Mar Baltico: l’intera Europa in pochi chilometri».


Una rivoluzione dall’enorme valore storico e linguistico quella prodotta dall’alfabeto di Lugano. Che però, come spesso accade in archeologia, può contare solo su piccolissimi frammenti. I testi delle iscrizioni sono molto corti. Si va da una parola, generalmente un nome, alle sette dell’iscrizione più lunga, scoperta nel 1966 a Prestino fuori Como, durante i lavori di costruzione del tratto autostradale tra Grandate e Chiasso: uvamokozis plialethu uvltiauiopos ariuonepos sites tetu, che letto da destra a sinistra significa qualcosa come «un certo Uvamokozis Plialetu ha eretto la stele in onore della famiglia degli Uvltiauio Ariuone». Pochi frammenti, ma preziosi, perché l’archeologia non è quello che si trova, ma quello che si scopre.


Una mattina di marzo del 1984 a Mezzovico la pala di un escavatore urtò contro un blocco di gneiss lungo 2 metri e 70. Il proprietario del terreno stava scavando per ampliare il proprio ristorante, e si rese subito conto che il masso non era un semplice blocco di roccia. Per riportarlo alla luce impiegò una giornata e mezza, e una volta ripulito dalla terra ebbe conferma del suo presentimento: per tutta la lunghezza c’era inciso un epitaffio in alfabeto di Lugano, che gli archeologi attribuirono a un monumento funebre del quinto secolo prima di Cristo. Per concessione del Cantone la stele rimase esposta per anni all’entrata del ristorante, e nel 2000 fu trasferita al Castello Visconteo di Locarno per una mostra dedicata ai Leponti. E poi? Poi niente: da allora fino ad oggi è rimasta in un deposito comunale in attesa di una degna sistemazione, che dopo 18 anni non è ancora stata trovata.


Un caso di scarsa attenzione per il nostro patrimonio collettivo. Ma la stele di Mezzovico, la più grande mai scoperta in Ticino, è solo la punta dell’iceberg. Alcune steli, come quelle trovate a Sorengo e Viganello, sono andate perse. Altre, come quelle di Banco di Bedigliora e di Ponte Capriasca sono relegate negli scantinati dell’Ufficio cantonale dei beni culturali. Altre ancora sono invece visibili al pubblico, custodite nei musei locali, senza però essere contestualizzate. Una delle più belle, quella di Davesco, che oltre all’iscrizione presenta anche la figura di una pernice e di un lupo, è finita addirittura fuori dal Canton Ticino e oggi si trova al Museo Retico di Coira.


«Il Canton Ticino è stato tra i primi ad introdurre una legge sulla conservazione dei beni culturali nel 1909. Ma non ha mai avuto un museo storico e archeologico cantonale, e questo purtroppo dà meno visibilità alle nuove scoperte», spiega Eva Carlevaro. Insomma: senza il tanto agognato Museo del territorio, accantonato dal Canton Ticino per questioni finanziarie, la maggior parte dei ritrovamenti rimane conservata nei depositi. Oppure è nei musei oltre San Gottardo. «All’epoca era in Svizzera interna che avevano sede musei o associazioni ben organizzate, per promuovere scavi e conservare reperti. E questo è anche un fatto positivo: se i reperti non fossero arrivati al Museo Retico di Coira o al Museo Nazionale di Zurigo, oggi sarebbero probabilmente perduti».


Chi ha abitato le nostre terre duemilacinquecento anni fa, Slania figlia di Verkos Kuimitros, Valauna figlio Ranienos, insieme a tanti altri loro contemporanei, hanno parlato. Tocca ora a noi prestare loro l’attenzione che meritano.La stele di Davesco, conservata al Museo Retico di Coira.



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